Bullismo, violenza e stigmatizzazione

Published On: Aprile 2nd, 2022 / Categories: Bullismo /

di Verena Elisa Gomiero

Bullismo e violenza giovanile sono due fenomeni diversi anche se apparentemente possono sembrare simili, perché arrecano danno a delle persone. Il bullismo è un fenomeno che si protrae nel tempo, può durare settimane, mesi o addirittura anni, è una condizione di provocazioni e prepotenze continue che spesso lasciano una cicatrice profonda in chi le subisce. Il target d’età in
cui si verifica va dagli 8/10 anni fino agli 11/13 anni, poi diminuisce progressivamente, si riscontra in bambini e ragazzi che quasi sempre frequentano la stessa classe.
Non va tralasciato un aspetto fondamentale ossia, la relazione asimmetrica bullo/vittima, dove l’uno è funzionale all’altro. Tutte queste sono le caratteristiche che permettono di distinguere il bullismo dalla violenza in generale, sono delle discriminanti importanti che non devono mai essere tralasciate, soprattutto l’aspetto cronologico cioè l’arco di tempo in cui si verifica. Certo il bullismo può essere terreno fertile per comportamenti devianti in tarda adolescenza o in età adulta, come dimostrano diverse statistiche. Anche nel bullismo vi è violenza intesa come: coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su un altro così da indurlo a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto (Vocabolario della Lingua Italiana di N. Zingarelli).
La violenza giovanile ha varie forme, sfaccettature, vi sono giovani adolescenti che compiono atti di vandalismo (muri imbrattati, segnali stradali semidistrutti, statue rovinate, ecc.), oppure usano la violenza per prendere quello che non riescono ad ottenere in altro modo, rubano soldi ai genitori o li estorcono ad altri ragazzi, per poter giocare ai videogiochi o per andare in discoteca, si appropriano di oggetti che nella subcultura giovanile sono diventati simboli di uno status a cui tutti aspirano, come zainetti, cellulari, giubbotti, motorini. Purtroppo si evidenziano anche casi di violenza estrema dove si arriva ad uccidere amici, compagni di classe e purtroppo anche i genitori, aspetto alquanto inquietante. Si dice che la violenza sia un tratto costitutivo della natura umana, ma quando si verificano fatti così atroci, si resta tutti increduli e inorriditi al tempo stesso e ci si chiede quale possa essere mai la causa che ha scatenato tutto ciò, il “perché” di tali gesta.
Dare una risposta non è ne facile ne semplice, spesso la causa o le cause sono molteplici e non sempre razionalmente capibili e allora l’opinione pubblica trova conforto nel dire che tali persone sono “malate” e hanno bisogno di aiuto medico, psicologico e psichiatrico. In questo modo la violenza trova una spiegazione e rassicura la gente, perché chi uccide un’altra persona è solo “pazzo”!.
Dal punto di vista psicologico la violenza viene considerata come: una figura dell’aggressività, che si registra o come reazione a vere o presunte ingiustizie subite o come tentativo di realizzazione della propria personalità, o come incapacità di passare dal principio del piacere al principio di realtà con conseguente intolleranza della frustrazione. Dal punto di vista psicoanalitico S.Freud ha iscritto la violenza tra le figure della pulsione di morte, in perenne dialettica con le pulsioni di vita che sono alla base della sessualità e dell’autoconservazione (Dizionario di Psicologia, U.Galimberti, UTET, 1992).
La storia umana è intrisa di violenza e forse continuerà ad esserlo, ma esserne consapevoli non assolve l’essere umano dal commetterla anzi obbliga tutti noi a combatterla, insegnando e spiegando quanto dolore e sofferenza può causare iniziando, dai più piccoli, perché anche loro come sappiamo ne possono essere vittime o artefici. Lo studio del bullismo e gli interventi per ridurlo possono essere dei buoni deterrenti per evitare una possibile violenza futura; rispetto e cooperazione penso siano due elementi fondamentali nell’educazione di ogni essere umano.
Va detto che i bulli, le vittime, chi usa violenza, chi la subisce molto spesso si trovano ad assumere un ruolo, una posizione alla quale è difficile sottrarsi, perché la gente che gli sta attorno li identificano come coloro che si comportano in un determinato modo, avviene una sorta di stigmatizzazione, un marchio di riconoscimento. I greci furono i primi ad utilizzare la parola stigma per indicare quei segni che vengono associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione morale di chi li ha. I segni venivano incisi col coltello, o impressi a fuoco, nel corpo e avvisavano che chi li portava era uno schiavo, un criminale, un traditore o un paria che doveva essere evitato. Dopo il sorgere del Cristianesimo vennero aggiunti due livelli metaforici, il primo si riferiva ai segni corporei della Grazia, che prendevano la forma di sfoghi sulla pelle, e il secondo ai segni corporei del disordine fisico. È la società che stabilisce quali strumenti debbano essere usati per dividere le

persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel definire l’appartenenza (Erving Goffman, 1983). Lo stigma fa apparire le persone diverse dalla massa e quasi sempre in negativo, ed è difficile scrollarsi di dosso un marchio così pesante. Uno studio di D. Olweus (1993) condotto su due gruppi di ragazzi rispettivamente prevaricatori e prevaricati dai propri compagni a scuola (classi VI elementare, I,II,III media), ha rilevato che le vittime passive, si erano normalizzate sotto diversi aspetti all’età di 23 anni. Ciò è indicativo del fatto che i ragazzi, dopo aver lasciato la scuola, hanno avuto sicuramente una maggiore libertà di scelta del proprio ambiente, sociale e fisico. La loro immagine è cambiata perché hanno cambiato ambiente di vita.
La Fonzi (1999), sostiene che invece di parlare di una società violenta si dovrebbe parlare di una cultura della violenza e della sopraffazione, della diffusione di un ethos i cui fondamenti, piuttosto che essere quelli della reciproca tolleranza, della comprensione, della cooperazione sono quelli dell’intolleranza, della rivalità e della competizione. Perciò non è solo un problema di scuola o di famiglia (che si rimandano la palla della responsabilità), ma di valori o disvalori sui quali è fondata la convivenza. In un clima con tali caratteristiche parrà naturale al bullo, tale per propensione temperamentale o per condizionamenti ambientali o più probabilmente per entrambi, continuare a prevaricare il compagno che gli appare più debole e più risibile, il quale troverà naturale soggiacere, quando non gli siano possibili altre via di fuga. E’ qui che si innesca quel circolo vizioso e perverso, quel “gioco crudele” che spetta agli altri, compagni e adulti cercare di interrompere, considerando il fatto che i principali attori, il bullo e la vittima, sono troppo coinvolti per poterlo fare.
Il bullismo presente nei tempi andati aveva una fisionomia meno inquietante di quello attuale e non perché gli esiti non fossero altrettanto negativi, ma perché era possibile ancorarlo a un degrado economico e sociale.
Oggi il binomio miseria-violenza è crollato in parte, alla parola violenza non si può associare con sicurezza nessun’altra parola, piuttosto una pluralità di termini, spesso di segno opposto: violenza e degrado (secondo un vecchio modo di considerare la violenza), violenza, benessere economico e consumismo, violenza e permissivismo, violenza e autoritarismo educativo (Fonzi, Menesini, Ciucci, Smorti, Genta, 1999).

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